Morale di movimento. Dal dovere della conservazione all'impegno per la crescita

Edmondo Cesarini

Morale di movimento

Dal dovere della conservazione all’impegno per la crescita.

 

 

Ingegnere, ex  dirigente d’azienda ed imprenditore, ha collaborato per 20 anni con i programmi pastorali della Diocesi di Albano. È impegnato anche come counselor sociale. Dal 2011 si occupa della sezione romana dell’Associazione Teilhard de Chardin.

 

Introduzione

    • Una concezione evolutiva della vicenda umana contrapposta a quella cosiddetta “statica” genera una diversa etica dei comportamenti: una morale che tenga conto del processo evolutivo, di crescita,  della persona umana,  una “morale di movimento”, come dice Teilhard de Chardin.

Questo articolo vuole offrire qualche  riflessione legata a  questo tema. Sono riflessioni relative a diversi ambiti dell’agire umano, non strettamente collegate tra loro. Non costituiscono  una trattazione organica: ovviamente  il tema richiederebbe uno studio ben più sistematico e completo, sarebbe auspicabile un trattato di teologia morale evolutiva, tutta una  pastorale di educazione in chiave evolutiva. Qui c’è solo qualche elemento, qualche spunto, qualche  suggestione, forse non inutili.

 

1. Morale di movimento

Nel “Fenomeno spirituale”, Teilhard scrive:

 

Il mondo si costruisce  finalmente a partire dalle potenze morali: la morale ha la funzione di costruire il mondo: ne risulta, per la moralità tutta una valutazione nuova….

Fino ad oggi la morale è stata prevalentemente intesa come un sistema fisso di diritti e di doveri miranti a stabilire tra individui un equilibrio statico, una difesa empirica dell’individuo e della società.

Ma l’uomo, sulla Terra, è un elemento destinato a compiersi cosmicamente in una coscienza in corso di costituzione. Allora il problema posto dalla morale non è già di conservare e di preservare l’individuo, ma di guidarlo nella direzione dei suoi compimenti attesi. La morale più elevata è quella che meglio saprà sviluppare fino ai limiti superiori il Fenomeno naturale. 

Nella morale di equilibrio sembravano permesse molte cose che vengono proibite dalla morale di movimento: purché non danneggiasse l’altro l’uomo poteva credersi autorizzato ad usare come meglio gli sembrava la porzione di vita che era sua: adesso vediamo che nessuna promessa e nessun uso sono legittimi se non tendono a far servire la potenza che racchiudono….

La ricchezza non diventa “buona” che nella misura in cui lavora  nella direzione dello  Spirito […].

Legge generale e suprema della moralità in un Universo riconosciuto come  in corso di trasformazione spirituale: limitare l’amore, ecco il peccato.[1]

 

 2. Amorizzazione

In un mondo “statico” la morale significa “mantenere le cose come stanno”, quindi si tratta di non fare “danni”: non fare questo, non fare quello.

Quella statica è una morale del “non devi”: non devi fare peccato.[2]

In un mondo in evoluzione il comportamento morale significa piuttosto, letteralmente, partecipare all’evoluzione del Mondo contribuendone alla crescita.

Il comandamento fondamentale, “ama il prossimo tuo”, comunque  resta lo stesso (e non potrebbe altrimenti), ma può essere declinato soprattutto come “contribuisci a che si sviluppi l’amore con il tuo prossimo”. La morale di movimento è un’etica dell’impegno, della responsabilità, di attenzione al futuro, di costruzione di relazioni positive: non solo “amare”, ma “costruire amore”.

“Costruire  amore” è qualcosa di diverso (e di più) che “amare”. Non per nulla Teilhard de Chardin coniò il neologismo “amorizzazione”, che mostra appunto una connotazione dinamica, “di movimento”, rispetto all’ “amore”.

Amorizzare è costruire le condizioni che permettono e facilitano la relazione creativa d'amore. A questo non si pensa: è già tanto quando si  ama; molto meno si pensa ad operare per creare le condizioni che facilitino/sviluppino/esprimano l’amore. Eppure questo impegno a costruire le “condizioni di amabilità” è l’unica attività veramente necessaria, vista la bellezza e l’importanza e la gratificazione di poter amare.

“Costruire  amore” significa impegnarsi a far sì che l’amore nasca, si sviluppi. Realizzare le condizioni strutturali perché possa esprimersi; in fin dei conti, questo è lo scopo ed il compito della vita.  

 In genere ci si limita a “consumare” l’amore (che poi di solito è solo innamoramento, se non addirittura infatuazione), ma non a costruirlo, mentre  questo è l’unico impegno valido, serio, significativo per cui viviamo, per cui la creazione è stata chiamata  all’essere: cioè per essere lo strumento, la materia, l’occasione, la modalità, la possibilità, la struttura, l’ambiente di questo progressivo sviluppo dell’amore tra gli umani finché l’amore sia “tutto in tutti

Si costruisce tutto, meno che l’ amore, forse perché si pensa che  “viene da solo”, che “c’è-o-non c’è”, che non sia poi così importante (salvo poi  provare l’inferno quando non c’è).

Come nella preistoria l’uomo dedicava tutto il suo tempo a conservare il fuoco, fonte della vita, del benessere e della società, così dovremmo dedicare tutte le attenzioni, le cure e le energie a mantenere vivo l’amore, fonte dell’unica vera totale felicità. Dice Teilhard: “quando l’uomo si accorgerà della potenza dell’amore, per la seconda volta avrà scoperto il fuoco”.[3]

Che questo sia vero ci se n’accorge solo quando, disgraziatamente, l’amore si perde: allora si vorrebbe aver vissuto solo per coltivarlo, mantenerlo, svilupparlo. Ed in effetti, come la salute, l’amore non viene da solo, non è frutto del caso, ma si costruisce.  L’amore si costruisce nel corso di tutta la vita, ed una vita intera non è inutile se è servita anche solo a costruire un rapporto d’amore, perfino se è raggiunto solo alla fine dell’esistenza. Come fa l’avaro con il suo denaro, bisognerebbe a ogni fine giornata fare il conto di quanto abbiamo fatto crescere l’amore: e se non è cresciuto dire, come Marco Aurelio, “diem perdidi

 Cristo diede il comandamento dell’amore, ma anche - forse ancora più importante e innovativo – il comandamento del perdono: e perdonare significa crescere. Perdonare non significa “scordare il passato” (come amorizzare non è solo “vogliamoci bene”) ma significa una ristrutturazione della realtà: una ricostruzione dei rapporti relazionali, una crescita della dimensione psichica, della nostra identità. Una vera evoluzione...

Perdonando diventiamo diversi da quelli di prima, perché diventiamo capaci di vivere in una dimensione nuova, in cui il significato delle azioni che ci hanno offeso appare diverso, non più significativo di un’offesa ma di qualcos’altro, perché siamo diventati “altri”, perché vediamo in modo diverso, perché siamo passati ad un livello di coscienza “più alto”. Se la vita è una crescita continua, il perdono (a noi stessi,  agli altri, al passato) è uno dei  fondamentali momenti di crescita. 

 

3. Identità e impegno

 Nel testo “Sur le bonheur”, Teilhard parla di due movimenti essenziali per poter  progredire verso la vera felicità (che è l'obiettivo di ogni etica): “incentrarsi” in se stesso, nella ricerca e svelamento e attuazione della propria identità, e “excentrarsi” verso l'altro, nella costruzione del rapporto personale che fonda la comunità.[4]

Mi sembra di notare come già nell’insegnamento di Cristo tali dinamiche - di identificazione e relazionalità costruttiva - siano presenti e importanti. Cristo esortava sempre  a “stare” nella  propria autenticità, nella propria “verità” -  che è il progetto esistenziale di crescita  di ognuno verso la  sua piena ed autentica realizzazione.[5] Condannava infatti l’uomo che pone la sua individualità, il valore della sua dignità umana, in “strutture di senso” artificiali ed esterne alla propria persona:  

- l’uomo fissato ai rapporti parentali: non alle relazioni umane tra familiari, ma ai rapporti sociali costruiti sui “legami di sangue”: (è mio parente chi fa la volontà di Dio / beato il seno...? beato piuttosto chi ascolta)

- l’uomo schiavo della ritualità del tempo (il sabato è per l’uomo, non viceversa)

- l’uomo ancorato alle sicurezze delle sue strutture economiche: (dov’è il proprio tesoro, lì è il cuore  / è più difficile che un ricco..../ non fatevi tesori corruttibili)

- l’uomo gratificato dall’apparenza, dalle maschere, dai ruoli sociali, che ha bisogno - per identificarsi - del riconoscimento (chi vuol essere il primo.../  non mettetevi  a capotavola)

 - l’uomo che per sentirsi “puro” rifiuta di riconoscere il male che è dentro di sé, proiettandolo all’esterno e colpevolizzando sempre gli altri (la dinamica del capro espiatorio) e così non migliora mai… (chi è senza peccato scagli la prima pietra.../ il bruscolo e il trave nell’occhio)

- l’uomo impegnato nel fare più che nell’essere:  mentre conta l’essere più del fare (episodio di Marta e Maria / chi può aggiungersi un cubito? / servi inutili siamo)

- l’uomo che pone se stesso nelle cose  invece che misurare le cose da se stesso  (l’obolo della vedova.)

Cristo – insomma – condanna l’uomo che accetta di lasciarsi definire da quelle “strutture di senso” generate da abitudini e condizionamenti culturali, che appaiono fonte di valori vivificanti ma  in realtà sono gusci vuoti, corazze  indossate  per difenderci e per ottenere il riconoscimento dagli altri nella lotta che quotidianamente conduciamo per l’affermazione del nostro Io. Corazze difensive, ma che alla fine ci falsano. Quando invece si è nella propria “verità”,  quella verità che ci fa autentici e  liberi, è possibile – anche facile - “muoversi” nella direzione del bene, impegnandosi a costruirlo  Cioè, appunto,  excentrarsi.

In questi termini possono essere lette le Beatitudini, che in una visione statica sembrano paradossali, ma in una evolutiva indicano prospettive di crescita fondamentali:

 - i poveri in spirito (= le persone disponibili) non impongono agli altri la loro “ricchezza” (= lo specifico del loro linguaggio, del loro modus vivendi): possono farsi ascoltare, dialogare, collaborare. E quindi esprimersi e crescere.

- gli afflitti (non i depressi/disperati) sono consapevoli delle difficoltà della vita e al tempo stesso della possibilità e necessità di superarle; è l’impegno conseguente questa consapevolezza che porterà consolazione.

- i miti possederanno il mondo, perché possono entrare in relazione con esso; i potenti no, perché lo strumentalizzano e impongono la propria “visione” del mondo; nel possederlo lo rendono cosa e lo perdono come valore umano, l’unico con cui si può entrare in relazione, e quindi costruire.

- gli affamati di giustizia, (di giustizia, non di vendetta) saranno saziati, perché la giustizia viene chiamata dalla loro esigenza di giustizia.

- i misericordiosi otterranno misericordia, perché non colpevolizzano gli altri, ne spengono l’aggressività.

- i pacificatori ottengono la maggior beatitudine, essere figli di Dio, perché affrontano la maggior difficoltà, il superamento delle diversità, la vittoria sul dia-bolo.

Le Beatitudini sono conseguenza delle nostre azioni: i beati sono tali perché si impegnano a realizzare il bene.

La beatitudine è nell’impegno personale a costruire il futuro: nella tensione verso  un progetto da realizzare.

 

4. L’attività  produttiva

La crescita della società  tramite l’amorizzazione, è naturalmente dovuta anzitutto alla “buona volontà” degli uomini, di quelli appunto che hanno “pace in terra”. Ma poi si attua in concreto nelle strutture socioeconomiche in cui si vive, e queste sono frutto, soprattutto, dell’attività umana, del lavoro dell'uomo, del prodotto generato da tale lavoro.

Molte sono le riflessioni sull’etica della produzione, che hanno riguardato soprattutto le lotte sociali ed economiche tra le parti coinvolte ed il problema ecologico. Ma forse più di queste, e comunque oltre queste, va considerata quella che si potrebbe chiamare “un’etica del prodotto”. Cioè, va considerato se il prodotto del lavoro, al di là delle condizioni economiche ed ecologiche in cui si realizza, è utile alla crescita umana: far crescere persone più coscienti e realizzate che contribuiscono a far crescere una comunità più coesa e reciprocamente caritatevole.

È ovvio  p. e. che la droga  non è “prodotto etico”, le armi probabilmente neppure (anche se per il principio “si vis pacem para bellum” c’è chi non la pensa così). Ma in realtà i prodotti-non-etici, a ben vedere, sono molti: cioè tutti quelli il cui utilizzo non produce crescita, fisica, psicologica, spirituale, anzi produce decrescita, e vengono  prodotti  solo per far girare l’economia: anche se ci può essere  del positivo in questo  (posti di lavoro, etc.) produrre qualcosa che non sia funzionale alla crescita del consumatore dovrebbe porre un tema di riflessione.

Oggi il consumo di tali prodotti viene incentivato – e quasi imposto - non descrivendone la realtà effettiva, ma associandoli ad una illusoria: in effetti il messaggio promozionale non parla mai del vero valore del prodotto, ma questo viene abbinato a un sogno illusorio di “vita bella” che il suo consumo dovrebbe attuare. Cioè creano un valore fittizio che induce al consumo non per quello che il prodotto “è”, ma per quello che illude di essere: “mangiate pasta X e c’è amore in famiglia”, “guidate macchina Y e sarete realizzati”, “comprate il giochetto Z e farete la felicità dei bambini”, “indossate la griffe W e sarete persone importanti”. Sembra di sentire la tentazione originale “mangiate la mela e sarete come Dio”.

Si sta strutturando una nuova religione, intesa come “fondale di senso della vita”, come valore esistenziale, come significato e scopo dell’agire umano: consumare quanto viene prodotto e proposto perché  questo è il nuovo “regno-dei-cieli”, in questo c’è “il senso della vita”.[6] A questo concorre tutto l’insieme dei messaggi dei media, TV in primis, sempre più vuoti, banali, decostruttivi, finalizzati a creare una società che sia preda – vittima – del circuito produzione-consumo, qualunque esso sia (società liquida, direbbe Bauman: su cui appunto non si edifica...).

Le leggi dell’economia spingono a produrre ciò che viene acquistato, e spingono ad acquistare ciò che viene prodotto, ma è il caso di porre la questione se sia da mettere in discussione questa legge per prodotti  che non contribuiscono alla crescita delle persone, e che quindi - possono essere detti “nocivi”, perché, in una morale evolutiva, la non-crescita è il male, come più volte afferma Teilhard de Chardin.

Certo c’è il problema di chi valuta la “nocività”, in base a che principi: politici? sanitari? etici? Lo Stato che si dichiara “non etico” può non interessarsene, ma chi è impegnato a contribuire alla crescita umana della società deve porsi il problema di cosa significa immettere nella società “prodotti” (materiali e/o culturali) che sono controproducenti. In una “morale evolutiva”, perché  la non-crescita è il male, come più volte afferma Teilhard de Chardin. Bisognerebbe sempre ricordare che ciò che si produce è “il frutto del lavoro dell’uomo”.  Nella Messa esso è offerto come materia che diventa il Corpo di Cristo: dovrebbe avere sempre  un valore quasi “sacrale”, che serva alla crescita dell’umanità

 

5.  La Messa della Vita

La “Messa sul Mondo” di Teilhard de Chardin continua ad affascinare generazioni di cristiani, con la sua suggestione di un’Eucarestia cosmica; ma si potrebbe riflettere anche sull’espressione “Messa del mondo”, o meglio ancora “Messa della vita”.

In effetti l’amorizzazione trova il suo culmine e pieno significato nell’Eucarestia: e la partecipazione all’Eucarestia sull’altare ci dovrebbe insegnare ed indurre a fare della nostra stessa vita una “Messa”, in cui la nostra umanità – “frutto della natura e delle esperienze dell'uomo” – diviene Corpo di Cristo (1Cr 12,27), formando così la pienezza del Corpo di Lui (Ef 1,23), che cresce appunto mediante l’attività di ognuno nella carità (Ef 4,16). In effetti noi possiamo essere considerati sacerdoti chiamati ed impegnati a transustanziare la realtà d’ogni giorno nella realtà metastorica del Corpo di Cristo.

Questo è il nostro compito di cristiani: sotto l’azione dello Spirito attuare la pienezza del Corpo. Oserei dire che tutta la materialità, la sofferenza, l’impegno della vita umana è la materia - il pane ed il vino - del sacramento cosmico con cui l’umanità è chiamata a divenire Corpo di Cristo. Celebrare la Messa della vita implica l’attribuzione di sacralità e progettualità ad ogni momento dell’esistenza, affinché vivendolo nella carità possa partecipare alla costituzione di quella realtà metastorica che è la Chiesa, il Corpo di Cristo.

È naturalmente la ricerca costante della gioia nel crescere umanamente (“affinché la vostra gioia sia piena”) piuttosto che del piacere nel godimento momentaneo, un impegno costante ad utilizzare le opere ed i giorni per costruire, un’attenzione costante a vincere il tempo-che-passa, radicando gli atti della vita in una dimensione “su cui la morte non ha vittoria”. Celebrare l’Eucarestia della vita “cambia la sostanza stessa della realtà”, diceva S. Giovanni Crisostomo, la “transustanzia”...

Per fare questo, siamo nati: ogni atto relazionale, ogni rapporto tra esseri umani può essere una “celebrazione eucaristica”. In ogni incontro “di due o tre in Suo nome” è presente Cristo e da ogni incontro può venire l’impegno ad un reciproco miglioramento, contribuendo alla edificazione del suo Corpo. Si può cioè agire la consacrazione e la comunione. Noi riusciamo – in genere – a partecipare una volta a settimana all’Eucarestia sull'altare, fondamento di tutte le relazioni umane, ma siamo in genere ancora molto lontani dal realizzare l’Eucarestia in ognuna delle relazioni umane, che pure ne sono l’effettiva materia. Dovremmo sempre ricordare “la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” insite in ogni rapporto umano.

Occorre fare della propria vita una celebrazione eucaristica, per cui la nostra umanità si rende disponibile ad esprimere l’Amore, partecipando - e così completandolo  –  al Corpo di Cristo. Che è l’esito più alto e definitivo di ogni morale...

 Articolo apparso su Teilhard aujourd'hui 26 (febbraio 2018)

 

[1] Pierre Teilhard de Chardin, “Il Fenomeno spirituale”, in L’energia umana, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1984, p. 130-134

[2] È forse opportuna una riflessione sul concetto di “peccato”, attualmente definito come “azione malvagia compiuta con piena avvertenza del suo essere “male” e con la libera e voluta scelta di compierla”. Un tale agire umano sembra essere difficilmente possibile. In effetti una persona che “con piena avvertenza e deliberato consenso” compie un’azione conosciuta chiaramente come “male”, conscia delle conseguenze cui va incontro (al limite l’Inferno), libera da condizionamenti psichici o errori cognitivi,  sarebbe considerata “matta” (quantomeno mentalmente disturbata), ma  allora non responsabile... In realtà, è solitamente così influenzato da culture, valori, strutture sociali, condizionamenti somatici e  psichici, che il suo è quasi un “arbitrio servo” di fattori esterni alla sua identità più profonda, alla sua identità spirituale.

[3] Pierre Teilhard de Chardin, “L’evoluzione della castità”, in Le direzioni del futuro, tr. it., SEI, Torino 1996, p. 105

[4] Pierre Teilhard de Chardin, Sulla felicità, tr. it., Queriniana, Brescia 19912, pp. 30-31

[5] Sul tema “Identificazione e Identità”  può essere consultato il numero17 (febbraio  2015),  di questa Rivista, contenente uno “special”  sull’argomento

[6] La “nuova religione” ha le sue cattedrali, gli outlets; il suo anno liturgico: la stagione dei saldi, le seasons holidays, le esposizioni annuali dei nuovi prodotti; i suoi martiri: una volta erano “testimoni” , oggi sono testimonials; i suoi padri spirituali: gli influencers; i suoi santificati: cuochi stellati, stilisti griffati; una sua chiesa: la comunità dei Consumanti. Il tutto A.M.D.G.: Ad Maiorem Divitum Gloriam. È per questa religione del consumanesimo che varrebbe il giudizio di Marx:“ la religione è l’oppio dei popoli”.

 

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