Una poesia di Eugenio Montale dedicata a Teilhard de Chardin

Sergio Bonato

Una poesia di Eugenio Montale dedicata a Teilhard de Chardin

Sergio Bonato vive a Roana (Vicenza). Si è laureato all’Università di Genova con una tesi di storia contemporanea. Ha insegnato ed è stato per numerosi anni preside nella Scuola Superiore di Asiago.  Ha partecipato alla attività amministrativa: è stato sindaco del Comune di Roana, presidente della Comunità Montana dei Sette Comuni, presidente della Cassa Rurale e Artigiana di Roana. Nel 1973 ha fondato l’Istituto di Cultura Cimbra di cui è ancora animatore e presidente. Ampia la sua attività di pubblicazioni, di convegni, di eventi e di manifestazioni. Ha scritto saggi e contributi di storia, di lingua, di critica letteraria e di arte. Ha organizzato e diretto 69 Quaderni di Cultura Cimbra. Ha scritto i testi del fotolibro Siben Alte Comoine di Sandro Brazzale (I Sette Antichi Comuni), ed. Panda, Padova. Ha pubblicato la raccolta di pensieri-preghiere Lungo i fiumi dell’Alabama e la raccolta di poesie Alloan Bortar (Soltanto parole).

 

Eugenio Montale, premio Nobel per la letteratura nel 1975, ritenuto uno dei più grandi poeti italiani del secolo scorso, scrisse una poesia su Teilhard de Chardin “A un gesuita moderno” (Eugenio Montale, L’Opera in versi, Einaudi, Torino 1980, p. 320).  La poesia fa parte della raccolta Satura, composta nell’ultima stagione della sua vita e della sua attività poetica e letteraria, dopo le raccolte Ossi di seppia, Le occasioni e La bufera e altro, in cui si può cogliere la sua visione desolata del mondo, il suo radicale pessimismo, la sua trama di simboli enigmatici percorsa solo talvolta da speranze di salvezza. 

Montale “esprimeva il dramma di un mondo in crisi per la rovina delle certezze antiche e la posizione dell’uomo moderno dubbioso e perplesso, posto tra segni inquietanti di apocalissi, alla vana ricerca di una via di scampo” (Giorgio Barberi-Squarotti). La poesia di Satura, “sotto il segno di una ironia sempre più amara e tragicamente negativa” con la sua variazione di tematica e di sensibilità, si presentava come “una iridescente ragnatela di battute da cicaleccio borghese” (Giovanni Raboni), perché “soltanto nel balbettio, nella irrisione, nell’esaltazione del basso, del banale, dell’insensato, si può ancora cogliere qualche traccia della verità e dei valori” (Giorgio Barberi Squarotti). Siamo lontani dall’universo di Teilhard, ma non mancano sintonie e coincidenze. Già il titolo “A un gesuita moderno”, indica una ispirazione sarcastica, ironica, sottilmente beffarda. Per il poeta, “gesuita” è il simbolo della chiesa cattolica sicura e dogmatica, mentre “moderno” è l’aspetto aggiornato, apologetico di quella chiesa che cerca di adeguarsi ai nuovi tempi.  Montale accenna un profilo sintetico di Teilhard: “Paleontologo e prete, ad abundantiam uomo di mondo”: è riconosciuto il valore scientifico del gesuita francese nel campo della paleontologia e il valore religioso della sua testimonianza di prete, nonché la sua fama di “uomo di mondo” per la diffusione del suo messaggio scientifico e culturale anche oltre i confini strettamente scientifici e religiosi. Montale rifiuta e quasi ridicolizza la visione della storia aperta da Teilhard, con la sua evoluzione cosmica, articolata in varie sfere, convergente nel Cristo. In particolare rifiuta la prospettiva della noosfera, la fase di evoluzione umana, che ha portato ai processi di globalizzazione dei nostri giorni, con la mescolanza di popoli, culture e religioni. Scrive Montale rivolto a Teilhard: “…se vuoi farci credere / che un sentore di noi si stacchi dalla crosta / di quaggiù, meno crosta che paniccia, / per allogarsi poi nella noosfera / che avvolge le altre sfere o è in condominio / e sta nel tempo (!), / ti dirò che la pelle mi si aggriccia / quando ti ascolto”.  La noosfera viene sentita come qualcosa di molle, di spregevole, davanti cui il poeta prova un brivido di orrore: anche la rima “paniccia - aggriccia” dilata, aumenta questo brivido. Montale sembra disprezzare la noosfera, la condizione di benessere e di progresso, ma anche di caos e di banalità, con i rischi di decadenza e di catastrofe, che pesano sui nostri giorni.

 Come hanno rilevato alcuni osservatori, Montale non mostra di aver conosciuto a fondo il pensiero del gesuita francese: sembra che di lui avesse letto solo Il Fenomeno Umano, la sintesi della sua visione evolutiva, in cui il passaggio alla noosfera è messo in chiara evidenza.  La noosfera, la sfera pensante, per Teilhard, “è un altro mondo che nasce. Astrazione logica, scelte e invenzioni ragionate, matematica, arte, percezioni calcolate dello spazio e della durata, ansia e sogni dell’amore…La terra assume una pelle nuova. Meglio ancora, essa assume la propria anima…Questo improvviso diluvio di cerebralità, questa invasione biologica di un tipo di animale nuovo che, gradualmente, elimina o sottomette a sé ogni forma di vita che non sia umana; questa marea irresistibile di campi e di fabbriche; questo immenso edificio di materia e di idee in continuo sviluppo… Tutti questi segni che noi guardiamo per giornate intere senza tentare di capire, non gridano anche alle nostre orecchie, che sulla terra qualcosa è planetariamente cambiato?” (Il Fenomeno Umano). Montale non mostrava interesse per prospettive universali di evoluzione e di progresso. Più che al pensiero di Bergson con il suo “slancio vitale” e con la sua “evoluzione creatrice”, più che al pensiero di Blondel con la sua teoria dell’azione, Montale si è mostrato vicino alla filosofia di Boutroux, con la sua visione contingente della realtà e con il suo rifiuto di ogni certezza assoluta e di ogni determinismo positivistico. Qualcuno ha paragonato il pensiero di Montale al “pessimismo cosmico” di Leopardi. Verità, speranze, sono soltanto illusioni. “Svanire è dunque la ventura delle venture…”.  La poesia per il poeta genovese può dare solo “qualche storta sillaba e secca come un ramo”, può dire soltanto “ciò che non siamo, e ciò che non vogliamo”. La poesia può testimoniare “la vita dove solo morde l’arsura e la desolazione”, può testimoniare come, sulle nostre strade, “la bussola va impazzita all’avventura e il calcolo dei dadi più non torna”, può scoprire “il punto morto del mondo, l’anello che non tiene”.

 Lontane e divergenti erano anche le loro esperienze del tempo e della esistenza di Dio, come si può notare nella seconda parte del brano poetico, che cerchiamo di analizzare brevemente, senza volerne spiegare la ricchezza e la complessità. Montale scrive in modo icastico: “Il tempo non conclude / perché non è nemmeno cominciato. / È neonato anche Dio. A noi di farlo / vivere o farne senza; a noi di uccidere / il tempo, perché in lui non è possibile / l’esistenza”. Le posizioni di Montale e di Teilhard sembrano antitetiche. Per Montale il tempo non conclude, perché non è nemmeno cominciato. Il tempo è una astrazione metafisica, che annulla l’esistenza. Nelle poesie che formano la raccolta di Satura, la riflessione sul tempo sembra farsi disperata.  La pioggia in un orizzonte senza nuvole si abbatte “sull’uomo indiato, sul cielo ominizzato, sul ceffo dei teologi in tuta o paludati…”. Nella nostra esistenza viviamo diversi tempi, dilaniati “su molti nastri, che paralleli slittano spesso in senso contrario”. Ci perdiamo in tante direzioni, in tanti smarrimenti, solo raramente ci incontriamo “per dirci addio, non arrivederci”. Viviamo infinite finzioni, infiniti non sensi, fino a “comprendere che un punto fermo è un tutto nientificato”. Tutto sembra ridursi a niente.  Per Teilhard il tempo è la struttura organica dello spazio, la struttura che si prolunga indefinitamente dietro di noi come davanti a noi, è la struttura che in sé non ha nessuna spiegazione delle cose, ma porta a una visione della loro connessione, della loro complessità, della loro evoluzione.  Montale arriva a scrivere: “a noi di uccidere il tempo, perché in lui non è possibile l’esistenza”. È una affermazione radicale dell’esistenzialismo filosofico. Uccidere il tempo sul piano metafisico, per affermare soltanto il valore del momento fisico in cui esistiamo. Viviamo nel vuoto e nell’assurdo.  Anche Dio entra in questa dimensione: “È neonato anche Dio. A noi di farlo vivere o di farne senza”.  Come è stato notato da alcuni attenti osservatori, non si tratta della negazione di Dio, ma della negazione di “un linguaggio che attribuisce a Dio i tratti propri dell’uomo o comunque presume di comprenderlo con le proprie categorie”. Montale non accetta le facili ricette di una “eternità tascabile”.  Si è parlato anche di una teologia negativa di Montale. Con questi versi il poeta ligure sembra non tanto negare Dio, ma “esprimere una grande esigenza religiosa, sollecitare una radicale purificazione dell’esperienza religiosa”.

In una sua confessione egli ha dichiarato: “Sono un poeta che ha scritto una autobiografia poetica, senza cessare di battere alle porte dell’impossibile… nei miei versi della maturità ho tentato di sperare, di battere al muro, di vedere ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita abbia un significato che ci sfugge.  Ho bussato disperatamente come uno che attende una risposta”. Anche Teilhard ha ripetutamente espresso questa esigenza di nuovi orizzonti culturali, oltre il formalismo dogmatico che ha caratterizzato gran parte della tradizione cristiana cattolica. Ha espresso appassionatamente l’esigenza di nuove risposte ai bisogni fondamentali della vita, nel contesto del progresso della scienza, della tecnica e della evoluzione umana sulla terra. In una lettera del 1929 egli scriveva: “una qualsiasi forma di compiacimento del passato (anche del passato cristiano!), o persino del presente, mi è diventata insopportabile”. E in un’altra sua pagina diceva: “Al centro della crisi totale che il mondo attraversa, non vi è oggi un solo uomo (credente o miscredente) che non invochi nel profondo della sua anima la luce: una luce che gli mostri un senso ed un termine agli sconvolgimenti della terra. Mai, forse, dopo l’anno primo dell’era cristiana, l’umanità si è trovata nello stesso tempo più staccata dalle sue forme passate e più ansiosa del suo avvenire, più pronta a ricevere un Salvatore”.

Tutto il messaggio umano e cristiano di Teilhard si concentra nella attesa di Cristo salvatore universale, non solo in una dimensione terrena, ma anche in una dimensione cosmica. Montale non ha condiviso in modo esplicito questa prospettiva mistica di Teilhard: egli in tutta la sua opera, anche nella poesia che cerchiano di analizzare, ha espresso “il male di vivere”, ha condiviso il cammino “lungo una muraglia con in cima i cocci aguzzi di bottiglia”, alla ricerca di “un varco”, di una uscita, di una liberazione, cercando una risposta, sbattendo contro un muro di mistero. Nel suo pessimismo spesso così cinico e desolato, Montale è proteso verso un “altrove”, verso un approdo, verso qualcosa aldilà del mondo e della storia. Leggiamo infatti: “Qualche uccello di mare se ne va, / né sosta mai: perché tutte le immagini / portano scritto: più in là”.  Parlando di sé, Montale non si è mai definito ateo, quanto “un cristiano senza dogmi”, un credente che “non vuole nominare il nome di Dio invano”. Il Dio di Montale, come già accennato, si può riconoscere “attraverso lampi e riflessioni… dietro le parole, in un orizzonte teologico, che corrisponde al sacro, al divino…”. 

Sembra che Eugenio Montale non si sia aperto al mistero rivelato da Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto, salvatore dell’universo. Secondo la testimonianza di parenti e amici stretti, egli ha mostrato sempre interesse per le tematiche religiose e per la figura di Cristo. Nella traduzione dall’inglese del “Canto di Simeone”, scritto da Eliot, egli fa sue le parole del vecchio: “In quest’età di nascita e di morte possa / il Figliolo, il Verbo non pronunciante ancora e impronunciato / dar la consolazione d’Israele / a un uomo che ha ottant’anni e che non ha / domani”. Come qualcuno ha notato, sono parole “che esprimono un tentativo di fissare un assoluto necessario, che dal pessimismo cosmico risalga a una meno disperante realtà esistenziale…”.  Per il suo “domani”, Montale invoca “la consolazione di Israele”: in chiave simbolica egli invoca Cristo, la consolazione salvifica per il futuro dell’umanità e di tutto l’universo. “Accordaci la tua pace…Fa’ che il tuo servo partendo veda la tua salvezza”. Montale sente in Cristo una promessa di consolazione e di salvezza, una immensa speranza “di cieli nuovi e di terre nuove”: si può trovare così, in questo anelito inconfessato, una profonda sintonia con il pensiero e con l’esperienza vissuta da Teilhard.   

 

Articolo apparso su Teilhard aujourd'hui 23 (febbraio 2017)

 
 
 
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